Welingprogress2's Journal

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15 May 2024

14 May 2024

Non son certo rimasta improduttiva, credetemi. Infatti: ecco le note da Arendt Hannah - "L'umanità in tempi bui", sono meno di 100 pagine, leggibili in una sera, o sul tram, o in fila, o...

"Il mondo non è umano essendo stato fatto dagli uomini e non diventa umano perché la voce degli uomini risuona in esso, ma solo quando è divenuto oggetto di dialogo.

Tutto avviene come se sotto la pressione della persecuzione i perseguitati si avvicinassero talmente gli uni agli altri da provocare la scomparsa dello spazio intermedio che abbiamo chiamato mondo (e che naturalmente esisteva tra di loro prima della persecuzione, creando una distanza tra l’uno e l’altro). Ciò provoca un calore tra le relazioni umane che può colpire chi è entrato in contatto con quei gruppi come un fenomeno quasi fisico. È ovvio che non voglio affatto negare che il calore dei perseguitati sia qualcosa di grande. Nel suo pieno sviluppo, può generare una bontà e una gentilezza di cui altrimenti gli esseri umani sono difficilmente capaci. Spesso è anche sorgente di una vitalità, di una gioia per il semplice fatto di essere vivi, che induce a pensare che la vita raggiunga la sua pienezza solo presso coloro che, dal punto di vista del mondo, sono gli umiliati e gli offesi.

I tempi moderni e l’antichità sono d’accordo su un punto: entrambi considerano la compassione come qualcosa di totalmente naturale, altrettanto inevitabile per l’uomo della paura
Per questo motivo, Aristotele ha trattato congiuntamente la paura e la compassione. Ma sarebbe un errore ridurre la compassione alla paura – come se la sofferenza degli altri facesse nascere la paura per noi stessi – o la paura alla compassione – come se nella paura non provassimo che compassione per noi stessi.

gli stoici mettevano sullo stesso piano compassione e invidia: “Poiché l’uomo che piange la sventura altrui, soffre anche della felicità altrui”.

“Bisogna compatire piuttosto che aiutare? Oppure siamo incapaci di portare aiuto senza provare compassione?”. In altre parole, gli uomini sarebbero meschini al punto di non poter agire umanamente senza pietà, senza essere sollecitati e per così dire costretti dalla loro propria compassione, quando vedono altri soffrire?

“Padroneggiare” il passato è possibile solo nella misura in cui si racconta ciò che è accaduto; d’altra parte, tale narrazione, che dà forma alla storia, non risolve alcun problema e non allevia alcuna sofferenza; non padroneggia nulla una volta per tutte. Piuttosto, finché il senso degli eventi rimane vivente – e ciò può durare molto a lungo – “il padroneggiamento del passato” può assumere la forma di un’incessante narrazione. Il poeta in un senso molto generale e lo storico in un senso molto speciale hanno il compito di mettere in moto il processo di narrazione e di coinvolgerci in esso. E noi, che per lo più non siamo né poeti né storici, abbiamo una familiarità con la natura di questo processo in virtù della nostra esperienza di vita, poiché anche noi abbiamo bisogno di richiamare gli avvenimenti significativi delle nostre esistenze raccontandoli a noi stessi e agli altri.
Nella reificazione operata dal poeta o dallo storico, la narrazione della storia perviene alla permanenza e alla durata. La narrazione ha ottenuto così il suo posto nel mondo, dove ci sopravviverà. Qui può continuare a vivere – una storia tra molte. In queste storie non c’è alcun significato che possa essere separato da esse – e anche questo lo sappiamo dalle nostre esperienze non poetiche.

La questione è sapere quale misura di realtà occorra mantenere anche in un mondo divenuto disumano, se non si vuole ridurre l’umanità a vuota frase o fantasma. In altri termini, fino a che punto rimaniamo obbligati al mondo anche quando ne siamo stati espulsi o ci siamo ritirati da esso? Non è certo nelle mie intenzioni affermare che l’“emigrazione interiore”, la fuga dal mondo nel nascondiglio della propria interiorità, dalla vita pubblica nell’anonimato non sia stata un atteggiamento legittimo, in molti casi l’unico possibile. La fuga dal mondo in tempi oscuri di impotenza si può sempre giustificare finché la realtà non viene ignorata, ma è costantemente riconosciuta come ciò da cui si deve fuggire. Quando le persone scelgono la loro alternativa, anche la vita privata può mantenere una realtà per nulla irrilevante, benché continui a essere impotente. Solo che per loro è essenziale capire che il carattere reale di quella realtà non consiste nella sua nota fortemente personale, tanto meno sgorga dalla sfera privata in quanto tale, ma inerisce al mondo da cui esse sono fuggite.
Ma nemmeno la semplice forza di fuggire e di resistere nella fuga potrà materializzarsi quando la realtà è ignorata o dimenticata, quando l’individuo si ritiene troppo buono, troppo nobile per misurarsi con un mondo simile o non riesce a fronteggiare la “negatività” assoluta delle circostanze che dominano in un momento dato. Grande fu la tentazione, per esempio, di ignorare semplicemente la chiacchiera intollerabilmente stupida dei nazisti.
Nonostante la seduzione insita nel cedere a tali tentazioni e di prendere dimora nel rifugio della propria interiorità, il risultato sarà sempre lo stesso: si getterà via l’umanità insieme con la realtà, come il bambino con l’acqua calda.

Per quanto le cose di questo mondo ci colpiscano intensamente, per quanto profondamente esse possano emozionarci e stimolarci, esse non diventano umane per noi se non nel momento in cui possiamo discuterne con i nostri simili.
Noi umanizziamo ciò che avviene nel mondo e in noi stessi solo parlandone e, in questo parlare, impariamo a diventare umani.
I Greci chiamavano filantropia questa umanità che si realizza nel dialogo dell’amicizia, poiché essa si manifesta nella disponibilità a condividere il mondo con altri uomini.

Che l’umanità debba essere sobria e lucida, piuttosto che sentimentale, che si attesti non nella fraternità, ma nell’amicizia, che l’amicizia non sia intimamente personale, ma ponga domande politiche e rimanga riferita al mondo – tutto ciò ci sembra così esclusivamente riferito all’antichità classica

Kant ammise che non ci può essere verità assoluta per l’uomo, almeno non in senso teoretico. Egli sarebbe stato certamente disposto a sacrificare la verità alla possibilità della libertà umana; perché, se possedessimo la verità, non potremmo essere liberi.

sentenza di Kafka: “È difficile parlare della verità, perché, sebbene ce ne sia una sola, è vivente, e ha quindi un volto che cambia con la vita”. "

https://youtu.be/dVSRJC4KAiE?si=DVxF1sQc8TxXWfZh
(ovvio che non capisco il tedesco, ve l'ho messo a caso)

14 May 2024

14 May 2024

14 May 2024



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